domingo, 10 de novembro de 2024

Alcune considerazioni senza pretese sulle nomine a vescovi di missionari religiosi

Ogni volta che ascolto o leggo le notizie che annunciano la nomina di missionari religiosi a vescovi, sono sopraffatto da un misto di timore e tremore. Non c'è da stupirsi: mi oppongo con veemenza a questa pratica anche se devo riconoscere che è abbastanza consolidata nella tradizione vaticana. Nulla vieta, però, che nell’attuale tappa del lungo cammino ecclesiale si possa inaugurare una presa di posizione nuova e inedita, anche contro ogni tendenza, senza illusioni e senza pretese. Di seguito presento alcuni argomenti per giustificare la mia opposizione.

Il primo motivo è che ritengo che un religioso consacrato, missionario, debba dedicarsi solo ed esclusivamente a quelle realtà che clamano per giustizia e vicinanza compassiva e a quelle segnalate, storicamente, dal fondatore e costantemente aggiornate dal proprio istituto. Comprendo che quando assume la 'carica' di vescovo, il missionario è legato, direttamente e sistematicamente, ad un'amministrazione formale che, personalmente, considero deviante. Reputo che la carica di vescovo, così come è attualmente concepita nell'amministrazione ecclesiastica, non è in linea con la vocazione missionaria del prescelto, nonostante le sue più nascoste ambizioni personali. Il religioso, infatti, si allontana, anche involontariamente, dagli obiettivi e dalle dinamiche tipiche del missionario consacrato. Basti guardare le azioni di diversi missionari che, dopo aver assunto l'amministrazione di una diocesi, finiscono per separarsi emotivamente ed effettivamente dal loro istituto, dalle loro presenze missionarie, dalla loro metodologia e dalle loro opzioni pastorali. Non possiamo nemmeno ignorare che, spesso, numerose diocesi hanno al loro interno presbiteri locali qualificati ad assumere il ruolo di pastore di una determinata diocesi, senza necessariamente ricorrere a presbiteri missionari “da fuori”!

Il secondo motivo che mi fa dissentire dalla prassi delle nomine episcopali dei religiosi missionari è la constatazione che, in generale, gli ordinati, invece di assumere 'diocesi missionarie', cioè realtà ecclesiali bisognose, impegnative e carenti di tutto, molte volte sono destinati ad assumere 'diocesi autosufficienti', senza grandi sfide pastorali, richiedendo solo continuità nell'amministrazione ordinaria. Qual è allora il significato di queste scelte? Si potrebbe sostenere che la presenza di un vescovo di un istituto missionario spingerebbe positivamente i cristiani ad aprirsi a una nuova sensibilità missionaria, tuttavia, io la penso diversamente. Nella maggior parte dei casi è il vescovo missionario ad essere “cooptato” dalle esigenze della carica propria di un vescovo per inserirsi e iniziare a lavorare secondo gli schemi consolidati dell'amministrazione canonico-diocesana. I ruoli di “vescovo-amministratore e vescovo-pastore” sembrano essere sempre più inconciliabili e, in alcuni casi, antagonici, soprattutto per quei missionari che si sono identificati con le loro precedenti esperienze missionarie positive. Credo che molti di noi abbiano potuto ascoltare o assistere gli sfoghi di confratelli vescovi o di vescovi diocesani di fronte al grande dilemma di conciliare lo spirito-pratica missionaria che, in generale, ci mette in contatto sistematico con comunità, movimenti, famiglie e comunità ecclesiali, gruppi, e gli obblighi canonico-burocratici di controllo delle responsabilità, la angosciante e imbarazzante preoccupazione di reperire fondi per le attività pastorali e per il mantenimento degli agenti pastorali, di dialogare con il clero e di risolvere crescenti conflitti e dispute interne, di celebrare cresime, di presiedere messe di chiusura di feste del patrono, partecipando a numerose commissioni della Conferenza Episcopale e 'potendo viaggiare', frequentemente, anche per alleviare le tensioni interne accumulate.

Un terzo motivo che vorrei esporre è che i responsabili degli istituti religiosi e delle loro comunità vedono quasi sempre la nomina di un loro membro come una sorta di riconoscimento pubblico davanti al Vaticano, o davanti ad altri istituti. Oppure un riconoscimento delle presunte qualità e virtù di un missionario con un profilo specifico per la gestione delle risorse umane e finanziarie. Si finisce per entrare in una logica estremamente ambigua e pericolosa. Il Vaticano, attraverso i suoi mediatori, effettua le sue indagini e nomina il candidato che, in genere, non trova alcuna opposizione da parte dei responsabili dell'istituto missionario, e nemmeno la presentazione di alcun tipo di condizione. Non mi sfugge che in questi casi c'è una velata imposizione canonico-vaticana di dover accettare, formalmente e moralmente, la 'nomina a vescovo' – soprattutto perché il ruolo vincolante dell'obbedienza formale non può essere contestato, ma accettato ciecamente. Mi sembra tuttavia legittimo domandarsi se non sarebbe il caso che il prescelto e il suo Consiglio Generale reagissero con garbata fermezza alla Congregazione Romana, abdicando, una volta per tutte, a questo atteggiamento ormai antiquato di sottomissione alle sue decisioni intoccabili. Non sarebbe il caso, ad esempio, che lo stesso missionario scelto come vescovo, in comunione con la propria congregazione, manifestasse il suo legittimo diritto al dialogo o, se si preferisce, alla negoziazione, al dissenso? Con tale presa di posizione si potrebbe raggiungere un consenso in cui il candidato sia destinato, almeno, a una diocesi “veramente missionaria” con carenza di risorse umane qualificate, infrastrutture insufficienti, scarsa presenza ecclesiastica e missionaria e lontano dalla sua “patria”, anche per segnalare la sua ferma disponibilità a continuare ad essere missionario 'ad gentes' come aveva promesso quando si consacrò? Purtroppo noto che un Consiglio Generale non ha una ragionevole autonomia per contestare e opporsi a una nomina vaticana.

Il quarto motivo che mi infatidisce è che il missionario, una volta scelto e nominato vescovo, incorpora, anche involontariamente, le stesse abitudini di quando avviene una “promozione solenne” a una posizione prestigiosa, all'interno di una certa gerarchia. In questi casi assistiamo a patetiche manifestazioni di velata adulazione da parte di chi ci circonda, di formalismi farisaici e omaggi retorici, attestando così che il prescelto non si sta tuffando in una missione di servizio missionario nascosto e disinteressato, ma piuttosto, in una realtà fatta di visibilità pubblica, con le sue dinamiche di potere e di ingerenza sociale ed ecclesiastica. Continua a stupire come certi missionari, una volta giunti all'episcopato, siano molto attenti alle formalità, coltivando una cura esagerata con i simboli della carica (mitria, pastorale, casula, anello, croce pettorale, ecc.), per non parlare dei titoli onorifici e delle residenze ufficiali ben attrezzate. Non sembra essere questo ciò che il Maestro ha insegnato ai suoi missionari itineranti seguaci della Buona Novella quando li ha avvertiti che «chi è il primo deve essere l'ultimo e il servitore di tutti»!

Certamente non mancheranno persone che reagiranno a queste insignificanti considerazioni dicendo che sarebbero il risultato di qualcuno che non ha più la possibilità di essere vescovo, immaginando così che questo sarebbe il sogno di ogni sacerdote e missionario ... Altri diranno che si vuol insistere a cercare 'il pelo nell'uovo' e che non conviene creare polemiche stupide e senza senso... Altri, infine, osserveranno che tutto questo è una autentica inutilitá, non aggiunge nulla e non porta da nessuna parte... Tuttavia, non possiamo ignorare l'attuale situazione globale ed ambiente ecclesiale in cui viviamo. È in essa che siamo chiamati ad essere segno luminoso, sale che dà sapore, testimoni di una Buona Novella concreta, comprensibile e aggiornata. Non si può, infatti, negare che, oggi, la società e molti settori della nostra Chiesa tendano a consolidare pratiche feudali devianti, favorendo il risorgere di varie forme di autoritarismo illuminato, di discriminazione del 'diverso', del 'anatema sit' per coloro che vivono 'extra ecclesia', di libertà illimitata di inoculare e imporre pensieri unici e distorcere i valori evangelici e umani. Non possiamo più fare silenzio difronte a tante contraddizioni e come missionari audaci, come soggetti di pensiero critico e membri di un gruppo missionario che vanta un’identità missionaria di servizio e aperta al mondo, rompere con pratiche, abitudini, metodologie e terminologie canonico-pastorali sclerotiche che ci deviano dal vero e unico paradigma che dá senso a ogni discepolo veramente missionario: 'stare in mezzo al mondo come coloro che servono'. Niente di più!

 São Luís, 10 novembre de 2024

 

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