terça-feira, 29 de setembro de 2009

XVII Capitolo comboniano: opportunità di svolta e di cambiamento istituzionale


Questo capitolo speciale nacque sotto la bandiera dell'urgenza, in parte dettata dalla chiara percezione che l' istituto – ahimè, come tanti altri - si trovava alla deriva. Era urgente fare una svolta. A partire da ciò si sono create inevitabili e legittime aspettative, speranze e sogni di veri cambiamenti. Molti nostri confratelli - e io stesso - continuiamo ad alimentare tali aspettative a riguardo di questo capitolo speciale e principalmente quanto alla presa di posizione e decisione di fare scelte coraggiose, come ce lo ricordava il proprio padre generale nella sua relazione iniziale.
Leggendo i testi finora prodotti, - quantunque siano incompleti - ho avuto la sensazione del “già visto”, dell'incompiuto, del nulla di nuovo sotto il sole...annebbiato. Pur ammettendo che è prematuro prevedere quale sfocio avrà questo capitolo, mi sembra che le premesse per i desiderati cambiamenti ancora non ci siano. Qualcuno potrà obiettare che tutto dipende da atteggiamenti interiori e non da cambiamenti formali e istituzionali. Se cosi fosse, tuttavia, non ci sarebbe stato bisogno di un capitolo speciale!
Arrivati a questo punto del capitolo e analizzando le premesse fin qui poste mi chiedo quale potrà essere la nostra contribuzione speciale all'istituto, quale potrà essere il valore aggiunto di questo capitolo, anche se non sarà totalmente originale, ma che almeno sia minimamente idoneo per rispondere alle evidenti attese di tanti confratelli. Si potrà certamente dire che è l'elaborazione di un piano per l'istituto, esigenza questa che sembra sia sentita da molti e che ho appoggiato fin dall'inizio. Tralasciando il fatto che per arrivare a questa sofferta decisione in aula capitolare alcuni giorni fa sia prevalso più il silenzio che il consenso, vorrei dire su ciò 3 cose:
1. Un piano anche se ben elaborato e tecnicamente coerente, se privo di decisioni significative, di scelte coraggiose e di densità profetica non ci toglierà dalla deriva in cui ci troviamo....a non essere che per la maggioranza ne siamo già usciti.
2. La nostra innegabile mancanza di dimestichezza di lavorare con piani di azione ci richiederà, nel post-capitolo, periodi non corti di adeguazione e allenamento perché ciò che decideremo sia realista e fattibile da un punto di vista concreto e operativo.
3. Un piano richiede, infine, cambiamenti istituzionali nel sistema di governo per gestire il volume di azioni sia a livello generale come continentale, cosa, quest'ultima, tristemente ignorata nelle attuali premesse .
Penso, tuttavia, che stiamo in una fase cruciale del capitolo e che possiamo ancora salvarlo. Pertanto, vorrei fare un richiamo a tutti noi capitolari perché prendiamo coscienza delle responsabilità e delle aspettative che i nostri confratelli hanno depositato in noi. Perché capiamo che il nostro mandato capitolare non è basato solamente sulla fiducia che essi ci hanno dato, - e questo non è poco - ma anche sulla nostra fedeltà a quanto essi hanno deciso nella fase anteriore al capitolo. Noi, in effetti, dovremmo sentirci solo i portavoce delle loro speranze di cambiamento e aspettative.
Invito, per finire, tutti coloro tra i capitolari che non erano nati o erano adolescenti - come me - all'epoca dell'elaborazione della Regola di Vita (40 anni fa') che non ci sentiamo inibiti, ma che con libertà interiore e coraggio possiamo proporre, correggere, innovare non solo la Regola di Vita, là dove c'è urgenza di farlo (alla fine non è parola rivelata!), ma principalmente quelle realtà che riteniamo essenziali per la nostra identità missionaria e comboniana.
Allo stesso tempo vorrei fare un richiamo perché non si utilizzi la Regola di vita per ingessare proposte innovatrici di cambiamento, ma che sia vista da tutti come un qualcosa di dinamico, di vivo che può e deve essere aggiustata ai tempi, alle urgenze e alle complessità del momento presente per rispondere con fedeltà ai sogni che oggi sentiamo e che vogliamo vivere.

sexta-feira, 25 de setembro de 2009

Agire come Gesù, non importa l'appartenenza - Mc.9,38-43.45.47-48


Non sempre abbiamo l'abitudine di fare una adeguata distinzione tra religione e fede. Spesse volte le identifichiamo. Tuttavia, la fede può sussistere e alimentarsi anche fuori dalla religione. La fede è la motivazione intima, profonda di un rapporto personale, inimitabile e irriproducibile tra la persona e Dio (indipendentemente dalla sua identità).
La religione è prodotto/frutto di un sistema umano, sociale e culturale che tenta di interpretare i rapporti tra la persona e Dio e cerca di strutturarli, metterli in funzione di un sistema prodotto culturalmente e storicamente. Ossia, un'insieme di norme, codici, precetti, gerarchie, forme di appartenenza chiara, di identità, che spesso minacciano la “fede”. Teoricamente, la religione dovrebbe essere uno spazio che alimenta e sostiene la fede, ma spessissimo la nega!Ho cercato di fare questa introduzione anche se un po' semplicista perché il vangelo odierno smaschera il facile abbinamento fede-religione.
Gesù è interpellato dai suoi discepoli perché si manifesti e “giudichi” un anonimo che stava curando utilizzando il suo nome. Essi volevano che glielo impedisse poiché non “apparteneva al gruppo di Gesù”. Ossia, non aveva una identità legata al gruppo, quantunque riproducesse, fuori dal gruppo, gli stessi segni di Gesù. Gesù, saggiamente, si colloca al di sopra di questi criteri di appartenenza formale e rafforza altri criteri, principalmente il criterio del giusto agire (orto-prassi), indipendentemente dai criteri formali di identità: “Chi non è contro noi è con noi. Non c'è nessuno che faccia ciò (agire bene) e subito dopo parli male di me e del mio modo di fare”. A partire da questa affermazione Gesù lascia chiaro che cosa è per lui la vera religione, quella che può e deve alimentare la fede, ossia il “retto agire”.
Gesù, infatti, segue nel suo intento di smascheramento della falsa religione ampliando e specificando maggiormente cosa tutto ciò può significare la pratica della vera fede indipendentemente dall'appartenenza formale a un gruppo o religione: chiunque, infatti, darà un bicchiere d'acqua da bere a un discepolo di Gesù, nel suo nome (e non motivato da precetti religiosi) - ossia chi agisce mosso dalla pura compassione e dalla carità, - avrà la sua ricompensa. Al contrario, coloro che “scandalizzano”, ossia, che sono di inciampo ai “piccoli” (in senso sociale) che agiscono rettamente, curano, guariscono, fanno segni sorprendenti nel nome di Gesù, pur non appartenendo al suo gruppo, sarebbe meglio che rinuncino al loro progetto di vita, si ritirino.
Coloro che usano tutti mezzi a loro disposizione (braccia, piedi, mani, occhi....) per impedire (scandalo) a tutti coloro che cercano di curare e guarire le ferite del corpo e dello spirito, come Gesù faceva, dovranno fare una radicale purificazione estirpando dentro di loro tutto ciò che “scandalizza”, impedisce il crescere della vita, del bene, del giusto agire! Estirpare e potare radicalmente le cause dello scandalo sono condizioni indispensabili per poter accedere all'imminente regalità di Dio.
E' preferibile, infatti, passare per un processo di dolorosa purificazione e di conversione radicale al nuovo che Dio sta preparando, che essere esclusi dal suo accesso e partecipazione. La loro esclusione significherebbe morte, infelicità e mancanza di speranza.
P.S. Peço desculpa aos amigos de lingua portuguesa por ter escrito em italiano, mas o teclado italiano è pobre na simbologia gràfica.....

sexta-feira, 18 de setembro de 2009

Que o "maior" sirva até o calvário (Mc. 9. 30-37)

Às vezes diante do inevitável, do “consumado” tentamos reagir de todas as formas. Vemos o que está por vir, mas freqüentemente nos recusamos em acreditar que aquilo que está acontecendo bem pouco podemos fazer para alterá-lo ou redirecioná-lo. Descobrimos a nossa incapacidade de modificar uma realidade que parece maior do que nós. A fuga tampouco não parece ser solução, pois seria uma forma de posticipar o problema, e não uma solução definitiva.

Isto parece ser o que Jesus experimentou quando o que parecia ser uma intuição ou percepção passou a ser algo claro, certo, inevitável. Refiro-me à consciência de Jesus de que, inevitavelmente, se persistisse nas mesmas opções e decisões que havia tomado seria fatalmente destinado a pagar com a sua vida por tudo isso. Jesus começa a perceber que não somente será o profeta-servo sofredor, o rejeitado, mas também o “sacrificado, o condenado a morte”.

O paradoxo que Marcos nos apresenta consiste justamente nisto: diante da perspectiva de serviço rejeitado, sacrificado, condenado, os discípulos de Jesus - o servo rejeitado, - em lugar de segui-lo no serviço incompreendido, rejeitado e sofrido discutem e rivalizam para ver quem dentre eles era o maior!

Temos fortes elementos para pensar que Marcos não está preocupado em resgatar um acontecimento histórico ocorrido na vida de Jesus, mas em dar uma resposta às primeiras manifestações polêmicas já existentes entre os seguidores de Jesus sobre quem e como deveriam ser os “dirigentes oficiais” da igreja hierárquica nascente.

Evidentemente, o evangelista, ao fazer memória da trajetória de Jesus procura recuperar de um lado aqueles elementos inspiradores da conduta e da opção do Jesus histórico sobre esse tema-problema (serviço X poder), e do outro, quer oferecer uma reflexão-repreensão a quantos, na atualidade (anos 70-80,) queriam fazer do apostolado um meio para se projetar e acumular prestigio.

Marcos deixa claro que o seguidor-discipulo de Jesus não pode segui-lo achando que vai ser para ele uma oportunidade para “ganhar a vida”, e sim um serviço muitas vezes contrastado, perseguido, incompreendido e sacrificado. Ou seja, o verdadeiro discípulo de Jesus para Marcos é somente aquele que O segue até o calvário. Ponto final.

Isto vale para todos, mas principalmente vale para aqueles que são chamados a ter responsabilidades dentro da igreja, ou seja, para aqueles que são considerados pelas pessoas comuns como sendo “os maiores, os primeiros”. Cair na tentação de utilizar o seguimento de Jesus para adquirir poder e prestigio è negação da prática e da mensagem de Jesus. É um comportamento típico de um “satanás” (veja evangelho de domingo passado), ou seja, de alguém que pensa e age “segundo os homens”, segundo suas ambições, e delas è dominado e controlado.
Uma pessoa assim não poder ser chamado de cristão!

sábado, 12 de setembro de 2009

O profeta rejeitado: renegar os projetos de dominação e assumir as suas consequências (Mc. 8, 27-35)

Quantas cruzes e experiências de morte fazemos ao longo da nossa vida! Momentos de angústia e desânimo que parecem minar, quando não matar, a nossa vontade de lutar e viver. Experiências em que os nossos sonhos, expectativas, ideais não encontram correspondência na realidade crua do dia-a-dia. É justamente nessas horas que construímos efetivamente a nossa identidade: quando o que queremos e imaginamos poder ser se choca com o que realmente somos, sentimos, fazemos e subimos, ou seja, com uma realidade não totalmente planejada por nós!
O trecho evangélico desse domingo põe em evidência as circunstâncias em que Jesus começa a se entender como um profeta rejeitado. Parece não existir mais espaço e condições para contemplar e se regozijar com os sinais maravilhosos de cura que operava, e com os numerosos consensos e aplausos públicos... Outros sinais que Jesus consegue captar, a partir da sua sensibilidade e capacidade de análise, lhe apontam outros desfechos para a sua missão. Começam a surgir nele outras reflexões e, principalmente, vê-se obrigado a rever integralmente a sua própria auto-compreensão e identidade.
É interessante perceber que Jesus nunca se autodefine, ou seja, Ele nunca diz que é o Cristo, ou o Filho de Deus, ou o Enviado-Messias, e também não aceita que alguém o enclausure em categorias cristalizadas que podem dar margem a distorções e especulações. Todavia, Jesus define sempre a sua missão e, geralmente, os seus efeitos e conseqüências. O trecho de hoje é paradigmático nesse sentido.....

1. Jesus utilizava frequentemente a metodologia da “sondagem” (v.27) para sentir o pulso das intenções das pessoas a seu respeito. Jesus parece não querer ignorar os impactos que o seu modo de ser e agir produz nas pessoas, embora isso não signifique ter que rever o seu plano de ação a depender dos resultados da sondagem...

2. Ao mesmo tempo, para evitar efeitos desviantes quanto à sua identidade deixava claro para as pessoas “quem ele não era”. Nesse sentido, Jesus ao proibir que Pedro reproduzisse as mesmas categorias/critérios que existiam na cabeça do povo em geral, rejeita a mentalidade judaica segundo a qual o Cristo/Messias devia ser glorioso, vencedor, triunfante, vingador, dominador. Ele não era assim!

3. Pedro que simboliza o conjunto dos discípulos que seguiam Jesus recusa a aceitar essa identidade de Jesus, pois colocava em xeque também suas próprias expectativas triunfantes e dominadoras. Para ele significava ter que ser discípulo de Jesus no sofrimento, na cruz, no abandono, na perseguição. O próprio Pedro, portanto, se sentia obrigado a rever a sua própria autocompreensão e isto lhe provocava frustração e indignação por não corresponder àquilo que sonhava e desejava.

4. O último momento incorpora todos, discípulos e povo em geral. Essas palavras de Jesus, posteriormente, foram utilizadas por setores da própria igreja católica para conformar sofredores e inocular-lhes o vírus da aceitação passiva e da negação da sua dignidade e da consciência e luta pelos seus direitos à vida plena. Renegar a si mesmo não significa rejeitar o bom e bonito que somos e temos, e ao qual temos que aspirar. Não significa tampouco renunciar a lutar e defender os nossos direitos à felicidade quando alguém nos humilha, oprime e ameaça. Ao contrário, significa para Jesus re-negar os projetos de dominação e opressão que existem dentro de nós, e assumir conscientemente as conseqüências de tal renúncia, ou seja, a cruz, a rejeição e a perseguição de quantos dominam e, enfim, partilhar a mesma experiência de Jesus, ou seja, seguir Jesus até o fim, o calvário.

A recusa a seguir Jesus no sofrimento - entendido como conseqüência natural das escolhas coerentes feitas, - significa perder o sentido da própria existência e a felicidade interior de quem se sente em paz consigo mesmo e com os outros. Cair na tentação de levar adiante os próprios projetos de dominação, de esperteza, de salvaguarda de privilégios pessoais, vai necessariamente produzir sentimentos de perdição, de infelicidade, de não realização humana.

Jesus, o profeta sofredor rejeitado nos ensina que é preciso desmascarar hoje as falsas promessas de felicidade fácil e imediata, que é preciso ir contra as tendências planetárias segundo as quais se salva e sobrevive somente aquele que sabe ser ousado e esperto em tirar proveito de tudo e de todos, sem ética e sem respeito. Quem assim agir já perdeu a sua vida, mesmo que não venha a ser “crucificado.”

sábado, 5 de setembro de 2009

Liberar a fala cativa e romper o silêncio omisso, anunciando e denunciando! Mc. 7,31-38

Talvez um dos maiores pecados na atualidade sejam a incapacidade humana em ouvir os clamores e os gritItálicoos de socorro por paz, justiça, fraternidade e vida. A indiferente surdez parece congelar sentimentos e modos de sentir. Simultaneamente, ao seu lado, aparece a incapacidade de denunciar e falar em favor dos que gritam e clamam. A voz covarde e omissa de quem não vê, não sente e não ouve, tampouco poderia falar do alto dos telhados! Como não nos reconhecer surdo- mudos? Como não desejar que alguém nos ajude a abrir nossos ouvidos para escutar, e tocar nossa língua para defender e gritar em favor de tantos silenciados ameaçados em seus direitos e dignidade?

O evangelho hodierno è uma verdadeira escultura carregada de singelo simbolismo plástico. Com mão hábil o evangelista Marcos parece esculpir de um lado denúncias claras e diretas e, do outro, elimina o material bruto que sobra fazendo emergir atitudes e perspectivas a serem assumidas.

Vamos tentar esculpir a pérola evangélica:

1.“levaram a Jesus um surdo-mudo....” (v.31) Foram as pessoas que tomaram a iniciativa de conduzir o surdo-mudo a Jesus. A iniciativa não foi da “vítima”. Nem sempre temos consciência de sermos surdo-mudos. A nossa arrogância e autosuficiência nos impede frequentemente de nos compreender como necessitados de libertação. É preciso que alguém próximo nos conduza e nos leve até onde precisamos fazer a experiência de nos “abrir”.

2.“... o tomou separadamente, longe da multidão....” Marcos com essas anotações parece nos dizer que não pode ser mais um desejo de cura da multidão – a que conduziu o doente até Jesus, - mas um desejo do próprio doente. Deve ser ele, agora, que consciente de sua situação se abre para Jesus. Deve ser o surdo-mudo que, pessoalmente, está disposto a fazer a experiência de ouvir e falar, e não mais por uma insistência dos seus intermediários.

3.“... Colocou seus dedos nos ouvidos e com a sua saliva tocou a língua... (v.33) Parece a ação de um escultor, ou melhor dito, de um....criador que vai modelando um novo ser humano, um novo Adão. Tocar com os dedos da mão e tocar com sua própria saliva o outro, o impuro, o “não-homem” manifesta a íntima ligação entre criatura-criador, sem barreiras e preconceitos e, ao mesmo tempo, a tentativa de moldar a criatura à imagem do criador. É como se Jesus dissesse ao surdo-mudo: “seja como eu!”

4.“... olhando para o céu soprou e disse:” abre-te “... (v.34) Para Jesus olhar para o céu não significa pedir-invocar ajuda para que consiga no seu intento – que já existe – mas é a típica imagem-referência a Deus para que o “beneficiado” perceba que è desejo e aprovação de Deus que Jesus lhe abra os ouvidos e libere a sua fala. O aramaico “efatà” è muito mais expressivo do que a língua portuguesa (abre-se): ele manifesta muito mais do que um simples processo físico de abrir... Aponta para um movimento mais totalizante, ou seja, abertura ao futuro, superação do medo e da incerteza quanto ao seu novo estado de “curado”. Não há como negar que Marcos está se dirigindo diretamente aos novos convertidos, discípulos e interlocutores de sua comunidade para que se deixem tocar e esculpir-moldar por Jesus, e que não tenham medo do que poderá acontecer com eles futuramente.

5.“... desfez-se o nó da sua língua e começou a falar corretamente...” (v.35) Liberar a fala, soltar o verbo e romper o silêncio, assim poderíamos descrever quanto Jesus operou no “mudo”. Na medida em que Jesus libera os ouvidos do “surdo” e o educa a escutar a sua palavra e os gritos de tantos irmãos que como ele não podem gritar, o predispõe e o envia para “falar-anunciar-denunciar”.

6.“...Ele fez bem todas as coisas....” (v.37) Como não lembrarmos aqui a mesma expressão utilizada no Génesis em que Deus após ter criado algo, ao contemplar a obra de suas mãos, constatava “que tudo era muito bom!” Com efeito, Jesus, ao vencer a surdez humana, ao liberar a “fala cativa” e ao “romper o silêncio omisso” estava realizando uma nova e inédita criação no ser vivo que Ele moldou.

Um bom domingo para todos desde Roma e um saudoso abraço!

quarta-feira, 2 de setembro de 2009

Caminhar com os outros, sem verdades e dogmas, procurando... caminhos

A manhã de ontem começou com uma palestra estimulante do padre geral dos jesuitas, Nicolas Adolfo. A sua constataçào inicial foi de que è preciso rever a teologia da evangelização. A atual è incapaz de dar conta das mudanças e complexidades que vêm se verificando. Ele o fez a partir de sua experiência missionària no Japão em contato com as culturas asáticas. Nesse sentido enfatizou a importância de retomarmos desde um ponto de vista contextual, a teologia da criação. Com efeito ela è a mais adequada para compreender essas culturas. Segundo essa visão que è cósmica, Deus està presente nas coisas, nos seres vivos, na totalidade da realidade. Como se fosse uma espècie de onipresença de Deus.


Um segundo aspecto que està presente nas culturas-teologias asiáticas e que podem nos ajudar a entender como estar presentes nelas è o fato que Deus è algo que não pode ser conhecido. Nós também temos uma teologia negativa segundo a qual Deus è um mistério insondàvel, o totalmente outro, mas frequentemnente falamos demais sobre Deus como se o conhecéssemos plenamente. Como falar de Deus se nem sequer conhecemos a realidade humana? Entretanto, a humanidade continua procurando o sentido da sua existência, pois não se sente feliz também com essas visões que escondem ambiguidades. Afinal, nessa visão o esforço humano è como se mostrar bons com "os deuses" para que eles não nos prejudiquem...



Ao mesmo tempo, nessa procura de sentidos, a humanidade procura sistemas de pensamentos, simbolos ,sinteses. Todas as religiòes tem isso. É algo que inclui e pega o todo: o pensar, o agir, o sentir, a moral....ou seja, pensa o todo. A crise religiosa surge do fato que o "sistema" quer pegar e explicar tudo. Diante disso podem surgir duas reaçoes: 1. A postura mística, a consciência da existência do mstério, pois aceitar o sistema totalizante seria uma ameaça ao sentuido de Deus. 2. Aceitar plenamente o sistema.


O missionario està no meio da crise e vive plenamente na crise. Afinal o verdadeiro missionàrio è aquele que "sabe que não sabe"! O missionàrio não è aquele que ensina, e sim aquele que acompanha os demais a descobrir o seu caminho.


Um sábio indu dizia a esse respeito que tudo começa com a experiência, depois procura o sentido da experiência, começa,então, a encontrar explicaçòes , e ai as explicaòoes se tornam monstros que querem eliminar as experiências; logo, precisa matar os monstros (as explicaçoes). A superação da crise atual talvez consista em ter que matar os monstros! Observe-se, por exemplo, que os jovens hoje querem continuar a procurar sempre, mesmo sem ter explicaçoes. Temos que revalorizar o que se dizia a respeito da "docta ignorantia" (sàbia ignorancia): o cristão conhece quando...não conhece! Nào conhece nada da vida humana mas fala demais sobre Deus. Quem afirma que conhece Deus que o mate, pois aquele não è Deus, è outra coisa, pois Deus não pode ser conhecido! Alguns estudantes japoneses diziam que a nossa teologia era lógica demais...para ser verdadeira. No mundo asiático há ainda espaço para o mistério, o desconhecido e inexplicável. A nossa teologia deveria ser mais humilde.




O budismo frequentemente não é considerado uma religião pois não fala de Deus,sendo que Este è mistério. Ele tem muita coisas a nos oferecer: os temas da paz, da harmonia, da meditação, a sabedoria da vida. É preciso se perguntar o que nós podemos oferecer a ele se negamos os valores que ele tem. No budismo, por exemplo, "tudo è vazio". Tudo è frágil e precisa de apoio e compreensão. Isso faz desenvolver um sentimento de compaixão muito grande para com tudo o que è fragil e fraco, sem condenar ou julgar. É preciso comprender. Esse sentimento não se dá só com as pessoas, mas também com os seres vivos, animais, etc. Para o budismo o pecado não vem da maldade humana, e sim da sua ignorancia.


Nesse sentido, como apresentar Jesus às culturas asiáticas que tem um grande apreço por ele, mas que não seguem a religião cristà? Jesus de forma coerente com o seu modo de sentir deveria ser apresentado como o caminho, jamais como um conjunto de verdades ou doutrinas, ou dogmas. O próprio taoismo significa caminho, um modo para procurar, algo a ser trilhado, jamais algo a ser apresentado como absoluto, claro, definido. Os asiáticos aprendem muito mediante o ver e o sentir. Eles percebem quando se fala com o coração (falar com autoridade), ou quando se fala sem mexer nos seus sentimentos das pessoas.

terça-feira, 1 de setembro de 2009

Combonianos em Roma para o XVII capìtulo geral:dialogando com o mundo!

Iniciou hoje em Roma o XVII capítulo comboniano. Ele reune representantes delegados de todas as jurisdições combonianas do mundo. Teremos, de um lado, a possibilidade de escolher e eleger a nova coordenação geral e, do outro, escolher um novo e mais adequado sistema de governo-coordenaçáo. Teremos de um lado a oportunidade de enfrentar temàticas específicas internas, e do outro, encarar o desafio de analisar, debater e encontrar pistas de como interagir com todas aquelas forças sociais que visam enfrentar os grandes problemas do mundo.

Evidentemente, - por sermos homens de "igreja" -temos pressupostos especìficos, mas procuramos aquelas soluções que muitos setores sociais hoje tentam construir: o fim das dominações econômicas e culturais, um maior respeito e equidade entre os povos principalmente com os do hemisfério sul, uma maior participação da sociedade na superação dos conflitos sociais. Tudo isso a partir do sentido de pertença a uma igreja que se identifica com a pràtica de Jesus de Nazarè. Temos consciência que somos plurais e, às vezes, adotamos metodologias diferenciadas e quase antagônicas entre nòs, mas estamos a buscar algo que nos acumuna. Percebemos, de fato, que ao enfatizar sobremaneira o poder das diferenças e especificidades regionais e/ou continentais podemos entrar nas suas armadilhas, ou seja, deixar de buscar o pouco ou o muito que nos une.

Os combonianos, hoje, são cerca de 1.700 e estão presentes em 4 continentes. Sofrem como todos os institutos religiosos a escassez de novas vocações o que, longe de ser algo negativo, os coloca na situaçào de refletir sobre o sentido de estar presentes no mundo hoje como missionàrios consagrados. A partir das reflexões que emergirão a respeito poderà surgir um jeito inédito de ser padre ou consagrado, hoje. O que não pode faltar, entretano, serà a coragem, a ousadia e o risco de "abrir caminhos novos e inéditos". Um abraço em todos e espero poder interagir com vocês!