Il termine «anticristo» (antichristos) appare nel Nuovo testamento soltanto nella prima e nella seconda lettera di Giovanni. Il contesto è certamente escatologico (paidia, eschate hora estin, vulg. filioli, novissima hora est, «figlioli, è l’ultima ora»), e il termine appare significativamente anche al plurale : «come avete udito che l’anticristo viene e ora molti sono diventato anticristi». Non meno decisivo è che l’apostolo definisca l’ultima ora come l’«adesso (nyn)» in cui egli stesso si trova: «l’anticristo viene (erchetai, presente indicativo)». Poco dopo si precisa, se ce ne fosse bisogno, che l’anticristo «è ora nel mondo (nyn en to kosmoi estin)”.
È bene non dimenticare questo contesto escatologico dell’anticristo, se è vero – come Peterson, e Barth prima di lui, non si stancano di ricordare – che l’ultimo momento della storia umana è inseparabile dal cristianesimo («un cristianesimo ¬– scrive Barth – che non è tutto e integralmente e senza residui escatologia, non ha integralmente e senza residui nulla a che fare con Cristo»). L’anticristo è per Giovanni colui che nell’ultima ora «nega che Gesù è il Cristo» (cioè il messia) e anticristi sono pertanto i «molti» che, come lui, «uscirono da noi, ma che non erano da noi», il che lascia intendere, non senza ambiguità, che l’anticristo esce dal seno dell’ekklesia, ma non appartiene veramente ad essa. Come tale, egli è definito più volte «ingannatore» (planos, letteralmente «colui che svia», vulg. seductor).
Il luogo sul quale si è concentrata per secoli l’esegesi dei padri e dei teologi sull’anticristo, non è, però, nelle lettere di Giovanni, ma nella seconda lettera paolina ai Tessalonicesi. Anche se il termine non vi compare, l’enigmatico personaggio che la lettera presenta come «l’uomo dell’anomia» (ho anthropos tes anomias) e il «figlio della perdizione» (ho uios tes apoleias) è stato identificato già da Ippolito, Ireneo e Tertulliano e poi da Agostino con l’anticristo. Paolo dice infatti di lui, che definisce anche «senza legge» (anomos), che «si drizza contro tutto ciò che è chiamato Dio o oggetto di venerazione, al punti di sedersi nel tempio di Dio, proclamando di essere Dio». L’anticristo è un potere mondano (una tradizione lo identificava con un Nerone redivivo) che cerca di imitare e contraffare nel tempo della fine il regno di Cristo. Nella lettera ai Tessalonicesi, tuttavia, l’uomo senza legge è posto in stretta relazione con un’altra enigmatica figura, il catechon, ciò che trattiene (anche nella forma maschile: «colui che trattiene»). Ciò che viene trattenuto è «la parusia di nostro Signore Gesù Cristo e la nostra riunione con lui»: il contesto della lettera è, dunque, esattamente come nella lettera di Giovanni, escatologico (poco prima, l’apostolo evoca «il giusto giudizio di Dio… nella rivelazione del Signore Gesù con gli angeli della sua potenza»).
Già al tempo di Agostino, questo potere che trattiene l’avvento finale di Cristo era identificato con l’impero romano (che Paolo, secondo le parole di Agostino, avrebbe omesso di nominare esplicitamente «per non incorrere nell’accusa di vilipendio, augurando il male all’impero che tutti ritenevano eterno») o con la stessa chiesa romana, come sembrava suggerire la lettera di Giovanni, menzionando gli anticristi che «usciranno da noi». In ogni caso, che si tratti dell’impero romano o della chiesa, il potere che trattiene è quello di un istituzione fondata su una legge o una costituzione stabile (anticipando la nostra nazione di «stato», Tertulliano dice: status romanus, che ai suoi tempi significava «la condizione di stabilità dell’impero romano»). Decisivo è comprendere la relazione fra il potere che trattiene e «l’uomo dell’assenza di legge». Essa è stata a volte interpretata come un conflitto fra due poteri, in cui il senza legge o l’anticristo «toglie di mezzo» il potere che trattiene. L’espressione ek mesou genetai («finché colui che trattiene sia tolto di mezzo») non implica in alcun modo che a farlo sia l’uomo dell’anomia: come la traduzione della vulgata (donec de medio fiat) suggerisce, a togliersi di mezzo è lo stesso potere che trattiene (sia esso l’impero o la chiesa).
Il testo che segue immediatamente è in questo senso perfettamente chiaro: «e allora sarà rivelato il senza legge». La relazione fra il potere istituzionale del catechon e l’uomo dell’assenza di legge è la successione fra due poteri mondani, uno dei quali si toglie ed è sostituito – o trapassa – nell’altro. Questo è, nelle parole di Paolo, «il mistero dell’anomia che è già in atto» e che trova alla fine il suo svelamento, quasi che, come il termine «mistero» sembra suggerire, il «senza legge» esibisse finalmente in piena luce la verità del potere che lo precede.
Se questo è vero, allora la lettera contiene una dottrina sul destino di ogni potere istituzionale che non bisogna lasciarsi sfuggire. Secondo questa dottrina, il potere istituzionale stabilmente fondato cede necessariamente alla fine il posto a una condizione di anomia, in cui al sovrano costituzionalmente fondato subentra un sovrano «senza legge», che esercita arbitrariamente il suo governo. La lettera contiene allora un messaggio che ci riguarda da vicino, perché è proprio un simile «mistero dell’anomia» che stiamo vivendo. Il potere statale fondato sulle leggi e le costituzioni cosiddette democratiche si è andato trasformando – attraverso un processo inarrestabile iniziato da tempo, ma che giunge solo ora alla sua crisi definitiva – in una condizione anomica, in cui la legge è sostituita da decreti e misure del potere esecutivo e lo stato di emergenza diventa la forma normale di governo. Resta – è bene non dimenticarlo – che la lettera afferma che una volta che il potere del «senza legge» è stato svelato, «il Signore lo sopprimerà col fiato della sua bocca e lo disattiverà con l’apparizione della sua presenza». Il che significa che quel che ci resta da pensare nella condizione apparentemente senza uscita che stiamo attraversando è la forma di una comunità umana che si sottragga tanto al «potere che trattiene» con la sua apparente stabilità istituzionale che all’anomia emergenziale in cui esso fatalmente si converte.
19 ottobre 2022
Giorgio Agamben
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